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IL GIORNO IN CUI TORNARONO A FIORIRE I QUADRIFOGLI

IL GIORNO IN CUI TORNARONO A FIORIRE I QUADRIFOGLI

Oltre cinquanta giorni di lockdown. Il sole in questo tempo, come mai prima aveva fatto, ha illuminato la natura che stava fiorendo nei prati, nei giardini, nelle aiuole e straordinariamente anche tra le crepe dell’asfalto, o ai piedi di un lampione. Anemoni viola, papaveri rossi e fiori gialli di tarassaco, in particolare. Siamo tornati ad ascoltare il canto degli uccellini, lo sbattere delle foglie sotto aliti di vento leggero, il rumore di un sasso che rotola da una pendenza spinto dal peso di una lucertola che si spostava cercando un raggio di sole.

Abbiamo ricominciato ad apprezzare le giornate che più di sempre scorrevano lente, le ore di luce che aumentavano progressivamente, le pause forzate che prima non immaginavamo nemmeno che esistessero.

La nostra vita, quella che scorreva tra affetti e relazioni, si è trasformata in un film, del quale abbiamo visto forse distrattamente il primo tempo e del quale adesso stiamo vivendo l’intervallo. In attesa di sapere come sarà quel secondo tempo che è rimasto in sospeso. Un secondo tempo che per molti significherà cambiare il finale, perché i protagonisti non saranno più gli stessi; mentre per altri il finale potrebbe essere addirittura migliore di come lo si era immaginato prima che questo tsunami ci travolgesse. Perché se i rapporti flebili si spegneranno silenziosamente come una candela a fine stoppino, quelli forti e resistenti alle intemperie della vita lo saranno ancora di più. Perché la paura di perdersi e le tante settimane di lontananza forzata ci hanno fatto capire quali sono le persone che per noi contano davvero e di quali si può invece fare a meno. Ci siamo sognati, abbiamo riso, pianto, azzardato battute di spirito, sfogato le nostre frustrazioni in lunghe telefonate, perché ci siamo sentiti impotenti al cospetto di questa situazione più grande di noi alla quale non eravamo preparati e forse non lo saremo mai. Potevamo – e dovevamo – solo stare a casa. E uscire solo lo stretto necessario per le urgenze quotidiane.

Mi sono sentita l’eroina di famiglia immolandomi settimanalmente nello snervante rito della spesa, ho corso tra gli scaffali perché dietro di me c’erano decine di persone in fila ad aspettare di poter entrare nel negozio. Sono arrivata il più delle volte a casa con il mal di testa, il fiato corto per quell’opprimente mascherina e le mani lacere dopo aver indossato guanti di lattice. Ma ogni volta l’ho fatto con l’orgoglio di non aver esposto i miei cari ad un rischio inutile.

Leggevo ogni giorno di tante persone che non avevano vinto contro il “mostro”, strappate agli affetti nel modo più atroce possibile. Senza nemmeno la possibilità di un ultimo saluto. Una sera, sono venuta a sapere di un amico di famiglia che non ce l’aveva fatta. E immediatamente il mio pensiero è andato ai suoi cari. Quello strazio vissuto da loro, moltiplicato per oltre 30.000 volte. Questa era la misura del dramma che stava vivendo il nostro Paese.

Ho occupato il tempo riguardando insieme ai miei genitori migliaia di vecchie foto, della mia infanzia e di quella che sarebbe stata la mia famiglia prima del mio arrivo, ben 43 anni fa. Ho ascoltato musica, cercando in ogni nota un’emozione che potesse ricordarmi ogni volta che l’avrei ascoltata, una volta finito tutto, questo surreale momento. Che per quanto ognuno di noi vorrebbe dimenticare, sappiamo che non sarà possibile. E la canzone che ho scelto è un inno al suono del silenzio, che gioco forza abbiamo dovuto riscoprire. Mentre fuori il mondo si era messo in stand by. Nessun rumore di auto che transitavano in strada, nessun telefono che squillava per lavoro ma – per fortuna – solo per condividere lunghissime videochiamate per rivedere i volti degli amici e delle amiche di sempre. La cui compagnia ci è stata improvvisamente strappata da un giorno all’altro per contenere l’espandersi del virus. Già, il virus. Quella subdola entità astratta – ma neanche tanto – che da un giorno all’altro ha creato un muro invisibile tra le persone, che non si possono più toccare, abbracciare, stringere la mano. Tra fidanzati che non si possono scambiare un bacio, tra genitori e figli che non abitano nella stessa casa ma che con le lacrime agli occhi hanno contato i giorni prima di poter condividere di nuovo momenti di spensierata normalità. Ho la fortuna di vivere nella stessa casa con i miei genitori, quindi ho potuto trascorrere con loro queste lunghe settimane di reclusione forzata tra le mura domestiche.

Ho festeggiato il mio compleanno in quarantena, è vero, ma in un clima di strana normalità: le lasagne – preparate insieme alla mamma – il profiterol ed un bicchiere di bollicine, rigorosamente italiane. E mi è sembrato il più bello di sempre. Perché eravamo insieme.

Insieme abbiamo riscoperto anche le gioie del giardinaggio, travasato piante di basilico e di rosa, comprata quest’ultima per la Festa della Mamma e ogni giorno, come un intimistico rituale personale, ho cercato con minuziosa speranza tra i fili d’erba del giardino un quadrifoglio. Fino a pochi mesi fa ce n’erano tantissimi. Poi, non sono più riuscita a trovarne, neppure laddove ne ho sempre trovati a decine e dove, straordinariamente, ho raccolto più di una volta anche qualche pentafoglio. Anche la natura sembrava precluderci ogni appiglio di speranza, ogni piccolo progresso lo abbiamo vissuto come una incredibile conquista.

Fino a quel giorno, quando finalmente ci hanno detto che potevamo ricominciare ad uscire. Pian piano, senza assembramenti. A un metro di distanza gli uni dagli altri e con le mascherine sul viso.

La vita stava ricominciando, proprio quando nel mio giardino, magicamente, sono tornati a fiorire i quadrifogli.

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