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TASTE 16, L’ASSAGGIO CHE NON TI ASPETTI

TASTE 16, L’ASSAGGIO CHE NON TI ASPETTI

Pensieri, sensazioni. In ordine sparso? Ordinato? Non so dirlo. Ciò che so è che quest’anno voglio raccontarvi il mio Pitti Taste con una prospettiva diversa. Non con una narrazione didascalica ma attraverso le good vibes che mi hanno accompagnato per tutto il percorso di degustazione. Lo confesso: dopo tre anni di assenza, mi ero preparata all’edizione 2023 cercando uno spunto, un fil rouge, su cui costruire la mia visita. E ho studiato, per giorni, ogni espositore per capire quale fosse più aderente alla mia idea di reportage. Focus sulle aziende green e biologiche. Focus sui packaging più accattivanti. Focus sulla territorialità. Sono partita da casa con lo smartphone, la penna, una borsa capiente per raccogliere i depliant e l’idea che a fine giornata avrei avuto già bello chiaro il taglio da dare al mio articolo. Sono entrata in fiera presto, facendo affidamento sul fatto che al mattino circolano soltanto gli addetti ai lavori e dunque avrei potuto fare con più calma e fluidità il mio lavoro.

Ecco, avete presente quando da bambini entravate in un negozio di dolciumi? Lo sguardo incantato e le tirate di giacchetta alla mamma al suono di “lo voglio!”? Trasponete la stessa immagine su di me, che per la prima volta da quando si è trasferita alla Fortezza da Basso di Firenze, mi riaffacciavo a Pitti Taste.

Tre padiglioni di leccornie dolci, salate o tutte e due insieme, tools per la cucina e beverage di ogni tipo. Per un totale di 538 espositori rappresentativi di eccellenze enogastronomiche italiane, frutto della tradizione, delle peculiarità territoriali e di straordinarie storie familiari ed imprenditoriali.

Ebbene, in quel momento ho idealmente strappato il mio memorandum con il filo conduttore da seguire. E ne ho subito individuato un altro: sono andata dove mi ha portato il cuore. E il palato, ovviamente.

Il cuore mi ha portato in primis nella mia Toscana, tra assaggi di prosciutto e olio extravergine di oliva. La prima fetta di prosciutto stagionato di Cinta Senese DOP tagliata a coltello della giornata, il Maestro del taglio Mirko Giannella per Renieri Salumi di Poggibonsi l’ha offerta a me e non ho potuto – né voluto, sia chiaro – rifiutare. Solo maiale di cinta senese e sale, ed una maniacale cura dei dettagli che si sentono tutti in quell’abbraccio al palato che ti lascia con la voglia di fare il bis con un’altra fetta.

Appena il tempo di svoltare l’angolo e il mio occhio cade sull’insegna de “Le follie di Carlo Giusti”: per la serie, se dobbiamo fare qualcosa di originale ed innovativo facciamolo bene. Per la prima volta in vita mia ho provato il prosciutto di piccione. Si, avete letto bene: di piccione. Questa azienda naturalistica di Lajatico guidata dalla famiglia Giusti da 4 generazioni, ha un allevamento di piccioni viaggiatori che trasforma con una marinatura in vasche di lardo di Colonnata con aromi di macchia mediterranea. E che nelle stagionature più estreme diventa addirittura bottarga di Piccione, da grattugiare sui piatti rigorosamente a crudo.

Mentre camminavo tra i desk di assaggio, ho pensato però anche ai più tradizionalisti, quelli che “una fetta di pane toscano con l’olio buono è la cosa migliore del mondo”. E sono andata idealmente nel Mugello, tra San Piero e Scarperia, dove sorge il Trebbio, una tenuta storica che comprende quella che fu la prima villa medicea del Rinascimento oggi Patrimonio Unesco, attualmente in mano alla famiglia Corsini. Con il capofamiglia Clemente timoniere di una realtà che non solo si distingue per storicità, ma altresì per la qualità del suo olio, prodotto con i frutti dei 30.000 ulivi della proprietà estesa su 70 ettari, di varietà Leccino, Frantoio, Moraiolo, Pendolino e Maurino coltivati con agricoltura biologica e biodinamica. In dieci minuti, sorseggiando un assaggio di due olii mentre ascoltavo la storia della tenuta dalla voce di Dianora Corsini, ho scoperto un mondo che non vedo l’ora di poter conoscere meglio…

Per il suo colore, l’olio è definito anche come “oro giallo”; tuttavia io a Taste l’oro giallo l’ho trovato davvero. Da GoldChef. Qui è la sorpresa che non ti aspetti, quel luccichio negli occhi non è soltanto la felicità di esserci ma anche il riflesso della polvere, dei fiocchi, delle briciole e delle foglie d’oro di Giusto Manetti Battiloro che sì, si può mangiare. Oro 23 carati e argento lavorati secondo i rigidi parametri della produzione alimentare per un effetto wow assicurato su qualsiasi tipo di portata, dolce e salata. L’aggiunta dell’oro alimentare non altera infatti alcun sapore, avendo una funzione puramente decorativa. Tuttavia la storia ci racconta che l’utilizzo dell’oro in cucina ha radici tutt’altro che contemporanee: esso avrebbe avuto origine infatti già 5000 anni fa in Oriente, poi ampiamente ripreso in epoca rinascimentale in molte corti e signorie europee. Non per una ostentazione di ricchezza, quanto per la credenza che il suo consumo producesse effetti benefici sul fisico e sullo spirito.

Se questo fosse stato vero non lo sappiamo, però abbiamo buone ragioni di credere che se c’è uno spirito avente effetti benefici – in questo caso sull’umore – è quello prodotto dall’Opificio Nunquam di Prato. Oltre al classico Vermouth bianco, il liquorista Fabio Goti ha infatti portato a Taste una linea divertente e tutta da scoprire che ha chiamato “Giochi di spiaggia”, studiata insieme al bartender viareggino Davide Pellegrini. Ricette create ad hoc per liquori accattivanti in cui il mare si sente davvero: sia nell’Aperitivo di Spiaggia a base di agrumi e piante officinali, sia nel Vermouth Bianco Dry ottenuto da vino bianco toscano arricchito da spezie, fino all’Amaro di Spiaggia aromatizzato con piante della macchia mediterranea dalle proprietà digestive, uno degli ingredienti di base risulta essere proprio l’acqua di mare, microfiltrata. Retrogusto balsamico invece per il Vermouth Rosso di Spiaggia, che si propone come vino da meditazione con note caramellate.

Lasciando la Toscana sono scesa fino alla Tuscia viterbese, andando a trovare il salumificio Coccia Sesto, per assaggiare una preparazione piuttosto originale, come i cremosi di lardo stagionato aromatizzati al lampone e, udite udite, al mojito! Spalmati su crostini di pane caldo danno il meglio di sé, così come anche il guanciale rotondo in cui gusto, tradizione ed innovazione si abbracciano in un prodotto unico di cui la Coccia Sesto detiene la registrazione oltre che del marchio anche della forma. Curiosa, ho chiesto spiegazioni anche su cosa fosse un certo salume a forma di ferro di cavallo in bella mostra: trattasi della Susianella Viterbese, della quale ho scoperto che la ricetta avrebbe origine con gli Etruschi, poi codificata nel Medioevo e giunta ai giorni nostri grazie all’impegno di pochi, ma determinati, produttori locali che la preservano gelosamente.

Idealmente ho percorso qualche altro centinaio di chilometri per arrivare in Puglia, dove ho scoperto un’azienda agricola che ha nel nome la sua filosofia: Bio Orto. Amore per la terra e i suoi frutti, passione per il cibo sano e buono e attenzione al benessere delle persone, sono i valori che insieme ai prodotti dell’orto vengono coltivati ai piedi del Parco Nazionale del Gargano. Pomodori, sughi, sottoli e salse speciali, tutto rigorosamente bio. Come anche l’olio, nelle varietà Peranzana, Coratina e Ogliarola. Qui a stupire è anche il concept del packaging: i colori vivaci della terra di Puglia avvolgono il design ricercato delle Bag in Tube da 3 litri, progettate per garantire la perfetta conservazione dell’olio e delle sue proprietà, grazie alla tecnica del sottovuoto che ne impedisce l’ingresso di aria e luce e dunque l’ossidazione.

Per il dolce, l’imbarazzo della scelta mi ha portato – per non far torto a nessuno – ad abbandonare ogni legame territoriale per buttarmi su qualcosa che non avevo finora mai assaggiato: il candido Mandorlato di Cologna Veneta di cui mi ha fatto omaggio la Casa del Dolce Bertolini & Figli. Si tratta di un torrone della tradizione veneta risalente al 16° secolo, nato come dolce natalizio dall’unione di soli quattro ingredienti – mandorle, uova, zucchero e miele – ma con una lavorazione piuttosto laboriosa. A differenziare il mandorlato di Cologna Veneta da quello prodotto in altre regioni d’Italia è proprio la lavorazione, che richiede una sequenza ben precisa di aggiunta degli ingredienti, i quali devono essere poi lasciati a fondere per molte ore a fuoco lento. Una volta in bocca, il guscio esterno fatto di miele, zucchero e albume si dissolve come una nuvola dolce lasciando spazio ad un finale croccante con le mandorle tostate.

Alla fine del giro, gli occhi sono pieni di meraviglia e la mia borsa piena di brochure. Ma soprattutto il cuore è pieno, di quelle emozioni che sono stata contenta di poter rivivere. Perché dopo quello che abbiamo attraversato negli ultimi anni niente deve più essere dato per scontato. Quella normalità che sembrava dissolta è nuovamente presente e io ho davvero imparato ad apprezzarla. Anche attraverso una fetta di prosciutto, una bruschetta con l’olio e il sorriso di quelle persone che dall’altra parte del banco d’assaggio mi hanno raccontato pillole della loro vita. Dietro ognuno di loro c’è una storia diversa, fatta di impegno, passione e voglia di incontrarsi.

Ciao Taste, alla prossima!

 

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